Omelia XVIII Domenica T.O.-A

(Matteo, 14,13-21)

Ave Maria!

Quando ero giovane e ancora inesperto di ciò che significa, concretamente, la parabola umana, pensavo che, nel mondo moderno, - a parte i veramente “cattivi” -, gli uomini potevano essere un misto di qualità positive e negative, ma nell’insieme a prevalere restavano sempre quelle positive o ideali. Era piuttosto una proiezione della mia giovinezza che si specchiava negli altri, altrettanto giovani e con i quali condividevo la vita di quel tempo, in un desiderio di assoluto e di bellezza cui non potevo rinunciare. Solo più tardi avrei imparato, per esperienza, che l’essere umano non rimane quasi mai quello della gioventù con la sua carica di pienezza di vita e la sua disarmata inclinazione alla bontà delle cose, del mondo e perfino della storia. Il passare degli anni, in effetti, le turbe psicologiche e morali, le esperienze soprattutto sociali, lavorative, relazionali, deteriorano, a poco a poco, quello slancio ideale della giovinezza e l’uomo si trasforma in una maschera di indifferenza, cinismo, egoismo che mandano all’aria ogni proposito di bontà e di relazione con gli altri all’insegna della più pura umanità. In questi giorni d’estate, peraltro, rileggo dopo tanti anni ( e per esigenze di studio) il celeberrimo romanzo Moby Dick dello scrittore americano Herman Melville (1819-1891) e ne rimango, come sempre, affascinato e fortemente impressionato: non è soltanto un suggestivo racconto sulla vita del mare, sullo spirito di avventura delle baleniere in quel lontano passato, ma una metafora del mondo adulto che, proprio sul mare, scopre il brutale impeto umano, la malvagità che lo domina. E per conseguenza, la fatale disillusione che accompagna questa presa di coscienza. Insomma, la vita umana, quasi a sua insaputa, è realmente soggetta al deterioramento, non solo fisico, ma soprattutto spirituale. Una scoperta inquietante e davvero dolorosa per chi ama la vita.

Non si tratta, almeno nel mio caso, di indulgere con queste considerazioni ad un pessimismo di facciata o ad uno spirito di sconsolato realismo che lascia il tempo che trova, quanto piuttosto di prendere sul serio il messaggio di Gesù che oggi, nel Vangelo, lascia cadere sulla nostra anima quell’invito sconcertante e profetico: “ Voi stessi date loro da mangiare”. E, insieme a questo, la grande e profonda “compassione” di Gesù verso la condizione umana, la sua solitudine e la sua frantumazione e dispersione a diversi livelli.
L’Evangelista Matteo, infatti, non si preoccupa molto dei dettagli del racconto. Gli interessa soltanto inquadrare la scena e presentando Gesù in mezzo alla “folla” in atteggiamento di “compassione” che è sempre all’origine di ogni suo comportamento. Un tratto originalissimo del suo cuore e del suo sentire che troviamo raramente in coloro che si affannano, in un modo o nell’altro, per contribuire a fermare la deriva che sempre minaccia la nostra vita e la nostra umanità. Forse soltanto i poeti conoscono questa compassione, ma si sa che i poeti stanno sempre dalla parte del cuore ed è per questo motivo che non sono mai popolari, neppure oggi, dove la cultura sembra più che mai al primo posto nella scala dei valori sociali. Così, Gesù non vive voltando le spalle alle persone, chiuso nelle sue occupazioni religiose e indifferente al dolore del vivere umano: “ Vede la folla, prova compassione e guarisce i malati”.
La sua profonda esperienza di Dio, in altri termini, lo fa vivere alleviando la sofferenza e saziando la fame di quelle persone povere. Tuttavia, il tempo passa, mentre Gesù è ancora impegnato nelle guarigioni. Ed è allora che i discepoli lo interrompono per farlo riflettere sulla situazione, molto concreta e realistica, che si è venuta a creare in tutto questo tempo: “ E’ molto tardi; è meglio “congedare” la folla perché qualcuno “si compri” per i fatti suoi qualcosa da mangiare! Viene spontaneo domandarsi che cosa hanno imparato, questi discepoli, da Gesù: si disinteressano degli affamati e così li abbandonano alla loro sorte – “che si comprino da mangiare, se non vogliono morire di fame”. Ma che farà chi non se lo può permettere?
Gesù risponde loro con un ordine perentorio e provocatorio, che noi cristiani dei paesi ricchi non vogliamo ascoltare fino in fondo: “ Voi stessi date loro da mangiare”. Non avrebbe potuto dirlo in modo più chiaro. Perché Gesù vive gridando al Padre: “ dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Dio vuole che tutti i suoi figli e le sue figlie abbiano il pane, anche chi non lo può comprare. Dunque, questa è la sua alternativa: una società più umana, capace di condividere il pane con gli affamati, avrà mezzi sufficienti per tutti ed anzi possono avanzare dodici ceste di pane. In realtà, in un mondo in cui milioni di persone (soprattutto bambini) muoiono di fame, forse noi cristiani dovremmo vivere vergognandoci: l’Europa non ha uno spirito cristiano e “respinge”, come delinquenti e approfittatori, coloro che vengono a cercare il pane. Ma, nel frattempo, ci sono nella chiesa e tra i cristiani coloro che camminano nella direzione indicata da Gesù? Purtroppo, la maggiora parte di noi sembra vivere sorda alla sua chiamata, distratta dai propri interessi, discussioni, dottrine e celebrazioni continue della Parola di Dio. Ma allora perché ci chiamiamo discepoli e discepole di Gesù?

Al tempo di Gesù, due erano i problemi più gravi e angosciosi che gravavano nei villaggi della Galilea: la fame e i debiti. Ed era quello che faceva soffrire Gesù, come capiamo dal Vangelo di questa domenica. Non a caso, quando i suoi discepoli gli chiesero di insegnare loro a pregare, infatti, dall’intimo del cuore di Gesù partirono subito due richieste che hanno molto a che fare con la realtà vissuta dalla povera gente di Galilea: “ Padre, dacci oggi il pane di cui abbiamo bisogno” e “Padre, perdona a noi nostri debiti, perché anche noi possiamo perdonare i nostri debitori”. Cosa poteva fare quella povera gente contro la fame che la distruggeva e contro i debiti che la portavano a perdere la terra, la casa, ogni sua possibilità di vita e di speranza? Invece Gesù vedeva con molta chiarezza la volontà di Dio: si deve condividere anche il poco che si ha e perdonarsi i debiti a vicenda. “Voi stessi date loro da mangiare”, cioé non abbandonate mai gli affamati e gli indebitati alla loro sorte.

Dopo tutto, Gesù non fu un operatore di miracoli sensazionali o impegnato a realizzare prodigi propagandistici. I suoi miracoli, come quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci, sono piuttosto “segni” che aprono una breccia in questo nostro mondo di cinismo e di peccato e puntano, per conseguenza, a indirizzare l’umanità verso una realtà nuova, meta finale dell’essere umano. Per questa ragione, i suoi discepoli e discepole autentici devono lasciarsi coinvolgere dalla sofferenza, soprattutto dalla sofferenza di coloro che conoscono bene cosa significa vivere senza pane e dignità umana. E così devono impegnarsi in piccole, ma concrete, iniziative, - perfino modeste e parziali -, ma che insegnano a condividere per identificarsi sempre di più con lo stile di vita di Gesù. In concreto, dunque, il miracolo della moltiplicazione dei pani ci invita a scoprire che il progetto di Gesù, - espressione concreta della volontà di Dio -, è soprattutto quello di nutrire gli uomini e riunirli in una fraternità reale in cui sappiano condividere da fratelli tutto: l’amicizia, la consolazione, il conforto, ed anche “il loro pane e i loro pesci”.

Attenzione, però. La fraternità, per il cristiano, non è una esigenza come tante altre. Al contrario, è l’unico modo di costruire e testimoniare il Regno di Dio. Eppure, questa fraternità può essere fraintesa e può essere confusa “con un egoismo molto laborioso che sa comportarsi molto decentemente”, come diceva il teologo Karl Rahner. In sostanza, ci convinciamo di amare il nostro prossimo soltanto perché, in apparenza, non gli facciamo nulla di particolarmente cattivo, anche se poi in realtà viviamo in un orizzonte meschino ed egoistico. Disinteressandoci di tutti e mossi unicamente dai nostri propri interessi. Verrà il giorno, tuttavia, in cui il Signore smaschererà le nostre menzogne e ci dirà, alla resa dei conti, quel terribile giudizio: “Avete fatto tutto per me? Vi sbagliate, perché io non vi conosco”. Possiamo solo tremare di spavento a questo verdetto sulla nostra vita che oggi evitiamo, come cristiani, con tanta cura: il giudizio di Dio, già fin d’ora, mentre pensiamo di voltare le spalle a quanto succede nel nostro mondo civilizzato e nel quale anche milioni di cristiani contribuiscono ad alzare quella “muraglia europea” contro il fenomeno drammatico delle “migrazioni” di individui e di popoli.
Di fatto, un’immensa marcia di africani, latino-americani, persone dell’Est, – ed oggi anche di tunisini del nord-Africa -, da diversi anni si avvicina all’Europa, spinta il più delle volte dalla fame e dalla miseria. L’Europa, tuttavia, ancora oggi non è preparata a rispondere, in modo umano e solidale, a questa drammatica del nostro tempo. Questa società europea, ha però dimenticato che ha posto le sue fondamenta di prosperità in secoli di sfruttamento coloniale, e vive in modo troppo comodo e confortevole per porsi il problema di questi uomini e donne, che cercano di sopravvivere in mezzo a noi. Sappiamo bene che il problema è di proporzioni enormi e che non è facile trovare soluzioni adeguate, forse anche politiche. Ma che almeno i cristiani, per decenza, non si schierino con sentimenti razzisti o di rifiuto degli stranieri. Che non si schierino con i mezzi di comunicazione di massa che alimentano un’opinione pubblica che, frequentemente, vuole vedere gli immigrati come pericolosi delinquenti e usurpatori di un lavoro già scarso per tutti. Che non si schierino con coloro che vanno costruendo a poco a poco quella grande muraglia che vorrebbe difenderci dal pericolo. In questa situazione esplosiva e carica di inquietanti interrogativi umani, il racconto evangelico dei pani è istruttivo e non potrà mai essere messo da parte a cuor leggero. Quest’episodio, che lo vogliamo o no, ha molto a che fare con la qualità della nostra fede.

E’ qui il punto decisivo della nostra riflessione. Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli, afferma: “ Voi stessi date loro da mangiare”, ma essi non comprendono queste parole nel senso in cui Gesù le intende, e cioè: attraverso la vostra fede e la vostra fiducia fate sì che fiorisca nuovamente la misericordia di Dio, anche nelle situazioni più disperate. Invece, i discepoli intendono quella frase in senso molto pratico: si mettono a fare il conto delle provviste disponibili e arrivano ad un bilancio alquanto magro e insufficiente, cinque pani e due pesci, e quindi del tutto ridicolo rispetto ad una folla così numerosa. Ma, appunto, Dio non è un contabile, secondo i nostri parametri, e per di più un maldestro e cattivo contabile. Resta di fatto che le sue riserve e la sua immensa generosità non possono essere misurati, come piacerebbe a noi, con il metro umano e infatti: “ Tutti mangiarono a sazietà e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene”.
Così, ancora oggi, Dio non è cambiato dai tempi di Gesù. E’ più che mai capace di compiere miracoli per il bene dell’umanità. Soltanto che noi non lo crediamo più e ci lasciamo trascinare per la via larga del buon senso o, ancora peggio, dalle trombe assordanti del mondo che ragiona sul pro e sul contro, scarta i deboli e gli sfortunati, vuole restare sempre con i piedi per terra. In verità, secondo la Parola di Gesù, non c’è nessuna proporzione tra i nostri bisogni e i suoi tesori, tra i nostri mali e i suoi rimedi, tra la nostra fame e le vie misteriose della sua misericordia. Il tempo dei miracoli, ribadisce oggi Gesù, non è affatto concluso! Ma è necessaria la fede, la vera e profonda fede, anzi vorremmo dire la nuda fede! Eppure, è così facile commuovere Gesù, commuovere Dio: gli basta soltanto che riconosciamo di aver bisogno di Lui e, nella nostra povertà e nelle nostre lacrime, accettare che sia Lui a salvarci. Accettare significa accogliere seriamente la sua grazia, le sue meraviglie e, soprattutto, il suo desiderio di amore per noi, molto al di là di ciò che avremmo osato immaginare o domandare. Questa è la nuda fede, non uno dei tanti surrogati che mettiamo in campo per nasconderci dietro il fatto che non vogliamo rinunciare alle nostre vedute e ai nostri parametri di valutazione della vera realtà della vita. Noi sappiamo tutto, diciamo a noi stessi, e Dio è sempre lontano, fuori dalla realtà.
E mi viene in mente, a questo proposito, l’episodio evangelico di Zaccheo, commentato stupendamente dal teologo Pierangelo Sequeri, e che ora cerco di riassumere. Gesù è sotto l’albero. Zaccheo non fa un gesto né dice una sola parola. Ed è Gesù, di sua iniziativa, ad alzare lo sguardo verso quell’albero dove Zaccheo stava appollaiato per vederlo passare, e che dice: “ Scendi, perché devo venire a casa tua”. Questo devo, commenta Sequeri, contiene qualcosa di sorprendente e di incantevole al tempo stesso: devo venire a casa tua, questo è ciò che Gesù desidera, e prima ancora che Zaccheo abbia dichiarato, in qualche modo, il suo interesse per Gesù. Siamo al punto più sorprendente di questo brano evangelico. Essere desiderati da Dio è un’esperienza nella quale non veniamo introdotti mai abbastanza!
Al contrario, veniamo piuttosto addestrati, con prediche generiche e discorsi fumosi e inconcludenti, a suscitare in noi il desiderio di Dio. O, al massimo, veniamo addestrati ai molti espedienti religiosi destinati a suscitare l’attenzione di Dio nei nostri confronti. Che cosa terribile e misera! Ci sono persone, in apparenza molto religiose, infatti, che finiscono per consumare tutto il tempo a loro disposizione in questi continui “appostamenti”, in questi sforzi ossessivi di piacere a Dio o almeno di farselo amico per ogni evenienza (non si sa mai!). In realtà, in questo tipo di anime, non succede niente. E chiedono al sacerdote, al confessore, all’amico-prete, “cosa devono fare esattamente” per “approdare a quello stato di benessere” che li assicurerebbe di aver trovato Dio e di essere amati da Dio. In questo modo il risultato della fede è una sorta di malinconica rassegnazione della propria vita religiosa così com’è, senza slancio di fede e senza rischio. Il sintomo inconfondibile di una misera fede che moltiplica i suoi sforzi perché non crede fino in fondo al fatto che è Dio ad aver desiderio di noi, innanzitutto. Perché il Signore non chiede assurdità, chiede soltanto la fede, la fiducia in Lui. Così Zaccheo ha capito tutto e risponde al desiderio di Gesù con la sua risposta esuberante ed entusiasta: “ Do la metà dei miei averi ai poveri…restituirò quattro volte tanto”.
Chi ha incontrato realmente il Signore, perché ha accolto il desiderio di Dio, non ha bisogno di chiedere al direttore spirituale, o al prete-amico, che cosa deve fare per piacere a Dio. Lo sa dal Signore stesso che, nella fede, lo esorta a camminare, lungo le strade della vita, con la mano stretta alla sua perché è Lui che vuole “venire nella nostra casa” per accendere lumi di fraternità e di solidarietà in qualsiasi situazione. Amen.

don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 2 agosto 2020

 

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